Tratto da L'Opinione delle Libertà
di Gianluca Perricone - 10 giugno 2012
EDITORIALI
Ha perso la figlia, l'unica figlia, a causa dell'esplosione di
un cassonetto provocata da una bestia con la mente devastata ed
ancora non si sa bene da che cosa.
Eppure lui - Massimo Bassi, piastrellista e padre di Melissa, la
giovanissima studentessa uccisa dall'esplosione avvenuta di fronte
all'istituto "Morvillo-Falcone" di Brindisi - ha dato (più o meno
volontariamente) una "lezione" di diritto che dovrebbe rimanere
impressa nelle menti. Soprattutto in quelle di chi appare troppo
avvezzo a costruire, intorno al potenzialmente più probabile
colpevole, un fragilissimo castello di prove (o presunte tali) che
al primo soffio di vento viene giù come dall'albero la foglia in un
ventoso pomeriggio d'autunno.
Ha detto sic et simpliciter Bassi: «Non voglio un colpevole,
voglio il colpevole». Il nodo è proprio questo. Nei primi passi
della stessa inchiesta brindisina, un povero cristo è stato
inchiodato dai mass media (presumibilmente ben imbeccati) - con
tanto di nome, cognome e addirittura localizzazione del palazzo
dove abita - a responsabilità che in realtà non aveva.
Quell'uomo, per diverse ore, ha incarnato la figura di "un"
colpevole ma i fatti, per sua fortuna, hanno ben presto dimostrato
che non fosse lui "il" colpevole.
La storia, recente e non, delle vicende nazionali ha purtroppo
dimostrato che esiste in certi ambienti giudiziari la tendenza
della quale abbiamo accennato prima: si parte dalla vittima e poi
si prende un vicino di casa, un fidanzato, un ingegnere, un
extracomunitario e da lì si parte.
Nel senso che intorno alla figura del "perseguitato di turno" si
costruisce il potenziale scenario di colpevolezza. E quando poi ci
si accorge del fallimento di questa tattica "facilona", il
colpevole (quello vero) chissà mai che fine avrà ormai fatto. Purtroppo la nostra è una giustizia capace di prelevare il Dna a
migliaia di persone con la speranza che in qualcuno di essi si
possano trovare tracce simili a quelle rinvenute sul cadavere della
vittima.
È una giustizia capace di riaprire casi di omicidio dopo diversi
lustri ed incriminare persone già interrogate (e dei quali si
verificò l'alibi) all'epoca del delitto. La nostra è una giustizia
che tiene sotto stretto controllo un potenziale dinamitardo e, nel
frattempo le esplosioni continuano a verificarsi. La nostra è
una giustizia che non indaga sulle fughe di notizie dagli uffici
giudiziari. La nostra è una giustizia che impiega anni per farti
sapere se hai torto o ragione. La nostra è una giustizia i cui
membri si auto-giudicano. E chi più ne ha e più ne metta. Allora
sorge spontaneo il semplice quesito: ma la nostra che giustizia
è?
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