Il giorno 10 Giugno 2009 è stato presentato a Roma un libro molto interessante. Ho deciso di pubblicare sul mio Blog le impressioni e le riflessioni di una persona che ha partecipato perchè ritengo che il caso di Angela sia molto importante e drammatico e che esso testimoni le gravi carenze del nostro sistema giudiziario e assistenziale quando si tratta di accertare realmente gli abusi subiti da minori all'interno delle loro famiglie.
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Ho partecipato ieri alla presentazione alla Camera del libro: “Rapita dalla Giustizia”, il libro scritto in prima persona da Angela L. per Rizzoli con l'aiuto di Caterina Guarneri e Maurizio Tortorella.
Due cose mi hanno colpito profondamente.
La prima è che in questo delirio umano e istituzionale durato dieci anni, la famiglia è stata lasciata sola per la quasi totalità del tempo.
Come unico argine a tale follia, da un lato la passione umana e professionale dell’avvocato Bomparola, dall’altra il coraggio e la tenacia del giornalista Tortorella e pochi altri.
La seconda cosa che mi ha profondamente commosso sono state le parole di Angela, la protagonista involontaria di questa vicenda e coautrice del libro.
Non mi ha colpito tanto la descrizione delle piccole e grandi crudeltà e soprusi a cui ha dovuto sottostare. Ho fatto abbastanza gavetta in comunità di tanti generi per non sapere cosa accade, a volte, anche nei posti considerati, nel loro genere, di “eccellenza”.
E comunque tutti credo, prima o poi, abbiamo fatto esperienza di comportamenti più o meno deplorevoli sul lavoro, compiuti dalle più disparate tipologie professionali: dalla cassiera del supermercato all’autista dell’autobus, dall’infermiere/a dell’ospedale all’impiegato del comune. E tutto ciò trasversalmente, dal laureato all’operaio.
Così come tutti, prima o poi, di persone appartenenti a quelle stesse categorie professionali, abbiamo fatto anche esperienze virtuose, che vanno ben al di là del compimento del proprio dovere professionale.
Così è anche la vita.
Quello che mi ha colpito invece, è lo spirito di Angela.
La sua, come chiamarla, “vocazione di combattente”.
E mi sono commosso fino alle lacrime, quando attraverso il suo racconto, l’ho rivista, lei bambina di otto-nove anni, che organizzava da sola la fuga dalla comunità di Genova per sé e anche per le altre bambine più piccole di lei. O quando, ragazzina nella nuova famiglia adottiva, di fronte all’assistente sociale insisteva nel non voler firmare i documenti per il cambio di cognome.
Dieci anni, senza vedere e senza avere notizie veritiere dei propri genitori.
Da tutto questo ho capito principalmente due cose:
- La prima è che il caso di Angela non è certamente isolato. Solo l’alchimia di un giovane “spirito indomito” come quello di Angela, che è ben raro, unito alla fede incrollabile di una famiglia, sfregiata dalla Giustizia e forse anche dalla comunità, hanno compiuto il miracolo di dare un lieto fine a questa storia, e farla conoscere al mondo. Ma questo “miracolo d’amore”, come ieri lo ha definito Tortorella, credo sia un’eccezione.
Quante altre storie non sono finite e non finiranno in questo modo?
Tante, troppe. Certamente la quasi totalità.
- Ma il miracolo più grande è che questo libro, che mi auguro possa squarciare finalmente un velo su questo genere di vicende, sia stato scritto, pubblicato ma soprattutto sia accessibile. Infatti così non è stato, in vicende del genere, in altre occasioni. Dove i racconti altrettanto agghiaccianti e, se possibile, ancora più terribili, sono stati censurati in ogni modo:
Sono certo che Angela avrà una vita piena e significativa.
E’ mia opinione che tutti quegli anni di forzata separazione dalla propria famiglia non saranno stati vani, perché credo che tanta solitudine, tanto dolore, tanta disperazione possono portare o alla follia (e non è certo il caso di Angela) o ad un livello di sensibilità e di forza interiore prezioso per realizzare grandi cose.
Ed è questo i mio personale augurio, oltre a quello di tanta serenità.
Concludendo il suo racconto, Angela raccontava dell’incontro avuto recentemente con l’assistente sociale e la psicologa che avevano seguito il suo caso, e che ancora operano in quel settore.
Trovo interessante che ambedue abbiano sostenuto di non ritenere di doverle delle scuse perché: “…abbiamo solo fatto il nostro dovere e, se dovessimo tornare indietro, lo rifaremmo ancora nello stesso modo…”.
A cura di Pietro Bono
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Ho partecipato ieri alla presentazione alla Camera del libro: “Rapita dalla Giustizia”, il libro scritto in prima persona da Angela L. per Rizzoli con l'aiuto di Caterina Guarneri e Maurizio Tortorella.
Due cose mi hanno colpito profondamente.
La prima è che in questo delirio umano e istituzionale durato dieci anni, la famiglia è stata lasciata sola per la quasi totalità del tempo.
Come unico argine a tale follia, da un lato la passione umana e professionale dell’avvocato Bomparola, dall’altra il coraggio e la tenacia del giornalista Tortorella e pochi altri.
La seconda cosa che mi ha profondamente commosso sono state le parole di Angela, la protagonista involontaria di questa vicenda e coautrice del libro.
Non mi ha colpito tanto la descrizione delle piccole e grandi crudeltà e soprusi a cui ha dovuto sottostare. Ho fatto abbastanza gavetta in comunità di tanti generi per non sapere cosa accade, a volte, anche nei posti considerati, nel loro genere, di “eccellenza”.
E comunque tutti credo, prima o poi, abbiamo fatto esperienza di comportamenti più o meno deplorevoli sul lavoro, compiuti dalle più disparate tipologie professionali: dalla cassiera del supermercato all’autista dell’autobus, dall’infermiere/a dell’ospedale all’impiegato del comune. E tutto ciò trasversalmente, dal laureato all’operaio.
Così come tutti, prima o poi, di persone appartenenti a quelle stesse categorie professionali, abbiamo fatto anche esperienze virtuose, che vanno ben al di là del compimento del proprio dovere professionale.
Così è anche la vita.
Quello che mi ha colpito invece, è lo spirito di Angela.
La sua, come chiamarla, “vocazione di combattente”.
E mi sono commosso fino alle lacrime, quando attraverso il suo racconto, l’ho rivista, lei bambina di otto-nove anni, che organizzava da sola la fuga dalla comunità di Genova per sé e anche per le altre bambine più piccole di lei. O quando, ragazzina nella nuova famiglia adottiva, di fronte all’assistente sociale insisteva nel non voler firmare i documenti per il cambio di cognome.
Dieci anni, senza vedere e senza avere notizie veritiere dei propri genitori.
Da tutto questo ho capito principalmente due cose:
- La prima è che il caso di Angela non è certamente isolato. Solo l’alchimia di un giovane “spirito indomito” come quello di Angela, che è ben raro, unito alla fede incrollabile di una famiglia, sfregiata dalla Giustizia e forse anche dalla comunità, hanno compiuto il miracolo di dare un lieto fine a questa storia, e farla conoscere al mondo. Ma questo “miracolo d’amore”, come ieri lo ha definito Tortorella, credo sia un’eccezione.
Quante altre storie non sono finite e non finiranno in questo modo?
Tante, troppe. Certamente la quasi totalità.
- Ma il miracolo più grande è che questo libro, che mi auguro possa squarciare finalmente un velo su questo genere di vicende, sia stato scritto, pubblicato ma soprattutto sia accessibile. Infatti così non è stato, in vicende del genere, in altre occasioni. Dove i racconti altrettanto agghiaccianti e, se possibile, ancora più terribili, sono stati censurati in ogni modo:
Sono certo che Angela avrà una vita piena e significativa.
E’ mia opinione che tutti quegli anni di forzata separazione dalla propria famiglia non saranno stati vani, perché credo che tanta solitudine, tanto dolore, tanta disperazione possono portare o alla follia (e non è certo il caso di Angela) o ad un livello di sensibilità e di forza interiore prezioso per realizzare grandi cose.
Ed è questo i mio personale augurio, oltre a quello di tanta serenità.
Concludendo il suo racconto, Angela raccontava dell’incontro avuto recentemente con l’assistente sociale e la psicologa che avevano seguito il suo caso, e che ancora operano in quel settore.
Trovo interessante che ambedue abbiano sostenuto di non ritenere di doverle delle scuse perché: “…abbiamo solo fatto il nostro dovere e, se dovessimo tornare indietro, lo rifaremmo ancora nello stesso modo…”.
Parole pesanti come macigni
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A cura di Pietro Bono
2 commenti:
La frase finale delle assistenti è un pungo allo stomaco. I casi sono due. O quelle parole sono state dettate da cattiva fede: ma non posso credere a una simile ipotesi e comunque bisognerebbe essere veramente stupidi per pronunciarle in quel caso. Oppure - ed è a mio avviso il caso peggiore - sono state dettate da convinzione, direi da ottusità. Come dire: ci sono delle prassi, delle procedure, c'erano dei sospetti, ho agito come dovevo". Non "al meglio di quanto sapevo", che almeno lascerebbe uno spiraglio di autovalutazione critica. Ma come dovevo. L'operazione è riuscita, anche se il paziente è morto!
In questo caso saremmo di fronte a persone oneste ma ottuse, possedute dalle proprie idee, incapaci di una minima valutazione autocritica anche a distanza di anni, persone per cui cè' la verità e la falsità e in mezzo niente...ed è ovvio in quei casi che chi lo dice è sempre dalla parte giusta!
Per il po' che ho visto, di questa malattia sembra molto malata la scena nazionale di aiuto alle persone, dai gruppi antiabuso ai gruppi antisette ai gruppi antiquellochevuoi. Che - per aiutarti a uscire da qualcosa - sembra quasi debbano per forza portarti da qualche altra parte, nivece di limitarsi ad aiutarti a ritrovare te stesso e la tua libertà.
Ho letto l'anuncio del libro ed un'interview al riguardo. Inutile dirti che mi ha tocata e purtroppo è una vicenda in più che ancora si parla troppo poco, mi auguro che le persone comincino a farsi un po di domande sulle loro responsabilità al riguardo dei bambini e ciò che hanno fatto vivere e immagino ci siano ancora.Come te mi colpisce molto nei bambini che trovano la forza ed il coraggio di uscirne, d'avanti ad un sistema che ha delle falle.
Fabia
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